LETTERE DA UN AMICO


Fiaba di Grazia Catelli Siscar dal blog "La Terra dei Magi" della Casa Editrice Anima.

L'amicizia è un lungo viaggio, che di avventura in avventura riporta sempre a casa, là dove dimora il cuore.

LETTERE DA UN AMICO

 UN NATALE DA SALVARE

 

Il paese di Babbo Natale si trova in un luogo lontanissimo, forse un altro pianeta, o forse è ben nascosto in un mondo parallelo, invisibile all’occhio umano. Tuttavia qualche notizia è trapelata; corre voce che sia tutto bianco, e che ogni notte, nel profondo blu della volta celeste, ondeggino aurore verde smeraldo, viola ametista, e giallo topazio. Non si ha invece notizia della presenza di stelle, quindi forse ci sono e forse no. Il cielo rosa del mattino è solcato da almeno cinque arcobaleni variopinti, e l’aria profuma di biscotto e cioccolato. Una cosa è sicura: c’è fermento in ogni giorno dell’anno! Serve tanto lavoro affinché tutto sia pronto quando scocca la fatidica, magica ora. Come sarebbe a dire quale ora? Che domanda, è ovvio, la mezzanotte del giorno di Natale!


Gli abitanti sono elfi laboriosi e bravi costruttori di giocattoli, ciascuno con la propria speciale competenza. Chi lavora il legno, chi si intende di elettronica e motori, chi dipinge, chi taglia e cuce. E anche scultori che danno forma ai diversi stampi, dove poi saranno colati i materiali di gomma per fare corpi e teste di bambole, o travasati i metalli per fare soldatini, trenini e automobili; poi naturalmente ci sono gli addetti ai forni per la cottura degli stampi, i supervisori che controllano il buon funzionamento dei giocattoli finiti, gli specialisti dei pacchetti, capaci di creare deliziosi capolavori, e così via.



Infine ecco gli elfi raccoglitori, i quali ottengono la legna, le pietre e i materiali necessari ai costruttori. Sono creature un po’ speciali perché possiedono una dote rara: parlano il linguaggio del regno vegetale e di quello animale. Si avventurano ogni giorno dentro le fitte foreste di Natalandia - è questo il nome segreto del paese misterioso - con un delicatissimo compito. Devono infatti passare in rassegna albero per albero, fino a quando sentono il sussurro di una voce profonda e nobile: è quella di una vita pronta per la donazione. Gli alberi di Natalandia sono magici, e ogni due cicli - secondo lo strano modo di calcolare il tempo da quelle parti - offrono i loro rami. Allora un elfo si arrampica fino a quello giusto, recita una speciale preghiera di ringraziamento, e poi lo taglia con un seghetto sacro che ha il manico in oro e lama di diamante. Dalla porzione dell’albero appena tagliata spunta immediatamente una gemma verde giada, e in breve tempo crescerà un ramo nuovo. A proposito, non temete, l’operazione è indolore per il generoso albero, e lo rende immensamente felice: una parte di lui sarà la gioia di un bambino.



Alcuni elfi raccoglitori invece devono trovare gli animali pronti per donare un po’ del loro pelo. Le volpi dorate offrono, quando è il loro momento, un pezzo della bella coda, una coda specialissima, molto più lunga di quella delle volpi che conosciamo noi. E ricresce nel giro di qualche giorno, esattamente come accade ai rami degli alberi, perché a Natalandia tutto è magico: lo sono gli animali, le piante e lo è ogni cosa. Dal pelo delle code gli elfi tessitori sanno ricavare i capelli delle bambole e molte altre cose. I montoni e le pecore si offrono alla tosatura ogni quattro cicli, ed è un evento decisamente buffo perché quelle pacifiche, morbidose creature soffrono il solletico, e ridono a crepapelle facendo rimbombare i belati ridacchianti su tutte le terre di Natalandia. Ridere è contagioso, e in breve ogni elfo, animale, pianta e cristallo comincia a ridere senza riuscire a fermarsi!
Per fare i colori gli elfi raccolgono i petali caduti dai fiorellini, e ce n’è sempre in abbondanza visto che di giorno spuntano prati fioriti a perdita d’occhio. Certi grandi fiori invece, di una tale bellezza come non esiste altrove, sono sacri e non si possono toccare: il loro profumo celestiale è il segreto dell'allegria eterna degli elfi e cura ogni male. Vivono centinaia di anni, e quando uno di loro finisce il suo ciclo vitale come fiore, Natalandia celebra una festa solenne perché il fiore si trasforma in fata. 


Insomma ogni ora, ogni giorno e ogni mese dell’anno e tutti gli anni, la favolosa terra di Natalandia sembra immersa in un gran fermento di gioioso lavoro. Dopo il paradiso è probabilmente il luogo più bello e felice dell’universo, e lo è dalla notte dei tempi. 
Lo è sempre stato… fino a quel terribile giorno, quando un’immensa nube nera venne da non si sa dove a oscurare i cieli. Tutti gli elfi, gli animali, le piante e i minerali guardarono in su con spavento. I colori del cielo erano scomparsi, gli arcobaleni inghiottiti nel buio, e su tutte le cose era scesa una tale oscurità che nessuna luce pareva sufficiente a rischiarare.



L’elfo più anziano - forse aveva qualche migliaio di anni - corse alla dimora di Babbo Natale, e correva tanto veloce che inciampò diverse volte nella lunga barba; non vedeva niente, intorno a lui erano solo gelo e tenebre, ma si fece guidare dal profumo di cioccolata che la casa di papà Natale emanava più intensamente delle altre. 

«Capo, capo! Cosa succede? Perché siamo piombati nel buio?» gridò trafelato mentre spalancava la porta, e non sapeva nemmeno se stesse parlando a qualcuno o a una stanza vuota perché l’oscurità era penetrata ovunque, anche nelle case, e le creature non riuscivano nemmeno più a vedersi tra loro.

«Sono qui Elborio» rispose Natale, chiamando per nome l’anziano capo degli elfi. «È accaduto infine! Ahinoi, è accaduto!» E mentre così rispondeva, Babbo Natale camminava nel buio a tentoni guidato dai gemiti di Elborio, per andargli incontro e scambiare un abbraccio. Piansero a lungo insieme, ed Elborio non capiva il perché della propria desolazione, mai nella sua lunghissima esistenza aveva provato un simile sconforto, ma se piangeva persino Babbo Natale allora aveva ben ragione a disperarsi! Tra le lacrime papà Natale raccontò una storia.


«Dice una profezia, tanto vecchia da persersi oltre le nebbie del tempo, che sarebbe arrivato un giorno, un giorno tremendo, quando gli uomini della terra avrebbero compiuto i crimini più orrendi, quando avrebbero offeso i bambini, dimenticato l’amore e perduto la speranza. Ecco, quel giorno è arrivato». 

«Anche il pianeta terra è piombato nel buio? Poveri umani, saranno tutti nel caos!»

«Non ancora» rispose il Grande Vecchio. «È calata l’oscurità solo nei loro cuori, per ora, un’oscurità che i più non vedono, sono ciechi che vogliono guidare altri ciechi. E tutto quel buio interiore è giunto fino a noi perché, come arrivano qui i desideri che ci danno lavoro tutto l’anno per poterli esaudire, così arrivano anche i pensieri terribili  di odio, vendetta, disperazione, paura. Poi, nessuno sa quando, un mantello nero coprirà anche i loro cieli, perché ciò che accade in basso accade in alto, ciò che si manifesta nel piccolo si manifesta nel grande, è la Legge».


Elborio aveva continuato a gemere abbracciato a Natale. «È la fine? Non possiamo fare niente?»

«Qualcosa possiamo fare, ma ho bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo recarci nel luogo segreto che custodisce la lampada magica della Speranza, e accenderla. È l’unica luce che potrà rischiarare queste tenebre».

«Come faremo a cercare qualcosa, a fare un viaggio se non vediamo oltre il nostro naso?» chiese Elborio con ragionevole preoccupazione.

»Chiameremo Zaccario il pipistrello azzurro, con il suo radar ci guiderà nel buio» rispose Natale. «E Ricciandro Cuor di Leone, il piccolo leone rosa dal cuore più coraggioso di tutto l’universo, lui ci difenderà dalle mille insidie del nostro cammino. E un bambino che coglieremo nel sonno, la sua innocenza e purezza indicheranno la strada, perché innocenza e purezza sono la strada verso la Speranza».


Fu così che Babbo Natale, l’elfo Elborio, il pipistrello azzurro Zaccario, il leoncino rosa Ricciandro Cuor di Leone, e un bimbo svegliato nel sonno e istruito su quanto stava succedendo, partirono alla ricerca della lampada della Speranza. Era un viaggio pericoloso, un tuffo nell’ignoto, ma bisognava farsi coraggio e affrontarlo, altrimenti le tenebre avrebbero inghiottito per sempre la terra e il paese di Natalandia. La magia e la bellezza sarebbero scomparse, le sfumature di tutti i colori e l’allegria uccise senza pietà.




Mentre procedevano nel buio, Natale ed Elborio cantavano le belle canzoni natalizie per tenere alto il morale, il bimbo guidava la direzione, e Zaccario si curava di evitare al gruppo qualche incidente, come sbattere contro un albero o cadere in qualche buco. Ricciandro invece era l’impavido, il difensore, e la sua presenza fu essenziale perché durante il cammino sbucavano dall’ombra un pericolo dopo l’altro: spettri che volevano spaventare affinché la spedizione fallisse, entità mostruose pronte a ghermire e uccidere. Persino serpenti velenosi che uscivano dal terreno per aggrovigliarsi sulle gambe e poi mordere, e terrificanti uccellacci che scendevano in picchiata; nessuno poteva vederli ma si udiva l’orrendo fruscio delle ali in avvicinamento. 

L’impavido Ricciandro però sbaragliava tutti con i suoi potenti artigli, avvertito da Zaccario, che grazie al suo radar poteva capire la direzione dalla quale il pericolo stava arrivando.



Dopo un cammino pieno di spaventi e che parve interminabile, e un rischio di congelamento perché l’oscurità era più fredda di qualunque freddo mai esistito, il bimbo disse: «Siamo arrivati, il nascondiglio della lampada è qui, da qualche parte!»

«Fermi tutti» replicò Natale, che se non lo sapete è il più grande dei Maghi. «Avverto un grave pericolo».

«Siamo davanti all’entrata di una caverna, e all’interno c’è una presenza» suggerì Zaccario grazie alle indicazioni del suo radar di pipistrello.

«Pericolo o no dobbiamo entrare. Siamo arrivati fino a qui e non possiamo arrenderci ora, costi quel che costi!» sentenziò Ricciandro con il suo coraggio.

«Andiamo allora!» decretò Elborio, pronto a morire per la salvezza della sua amata Natalandia e di tutti gli uomini della terra, ma stava pensando ai bambini quando lo disse.


Non appena varcata la soglia della grotta, apparve al gruppo un sinistro bagliore verde che via via crebbe d’intensità, fino a quando tutti riuscirono a vedere le fattezze di un drago dalle ali gigantesche. I suoi occhi gialli di rettile avevano uno sguardo feroce; sembrava l’incarnazione stessa del male. Nemmeno Ricciandro sfuggì al terrore di quel momento.


Come per rispondere alla domanda silenziosa che gli altri si stavano facendo, Natale disse: 

«Lui è la costruzione di tutti i pensieri e le azioni malvage, della crudeltà di chi ha spogliato il suo prossimo per cupidigia, e della disperazione di quelli che hanno smesso di lottare. Si è nutrito ed è cresciuto grazie all’ingiustizia e alla perdita d’ogni speranza. Lui ha rubato la lampada! In un tempo che nessuno ricorda, la lampada della Speranza era sempre accesa e illuminava il mondo dall’alto di una montagna sacra. Ma il mondo scivolò lentamente nel caos e la fiamma si affievoliva sempre di più, fino a quando si spense; allora il drago riuscì a rubarla e a nasconderla qui, dove forse nessuno l’avrebbe mai più trovata».

«Eppure noi ci siamo riusciti» precisò Ricciandro.

«Grazie allo spirito del Natale?» chiese il bambino.

«Sì piccolo» rispose Elborio. «Ma ora dobbiamo sconfiggere il mostro!» 



A quelle parole seguì un silenzio pieno di paura. Il gruppo si aspettava che il dragone avrebbe tentato di arrostirli con una fiammata. Dal buio della caverna cominciarono invece a emergere delle immagini, e si susseguivano una dopo l’altra, erano tutte intorno, sulle pareti, sul terreno, sulla volta, o galleggiavano nell’aria e si accendevano e si spegnevano in un delirio di scene raccapriccianti. Mostravano le infinite crudeltà e le indicibili sofferenze di secoli e secoli di storia umana. Non furono le fiamme bensì quelle immagini tremende proiettate dal drago a stritolare i coraggiosi avventurieri; si contorcevano dal dolore, come se 
la visione di tanto male avesse più potere distruttivo di qualunque fuoco. E lentamente quello strazio fiaccava la loro volontà, diventavano sempre più deboli, si stavano arrendendo al destino, il male era più forte, li consumava fino all’annientamento. Tutti tranne il bambino. Gli altri quattro, inermi ed esanimi, videro il piccolo uomo avvicinarsi lentamente al drago e fissarlo negli occhi. Con il suo cuore puro colmo d’amore, che nemmeno un grande Mago, nemmeno un elfo antico, né un pipistrello o un leoncino magico avevano di tale adamantina innocenza, polverizzò il mostro. La bestia aveva osato sostenere lo sguardo del bimbo, e ne fu distrutta. Il delirio di onnipotenza fu la sua rovina, perché credeva che 
il male da lei incarnato fosse la più potente forza dell’universo, ma si sbagliava: è l’Amore la forza che muove tutte le cose e regge la creazione!


Quasi come svegliati da un sogno, anzi da un incubo, Natale, Elborio, Zaccario e Ricciandro si alzarono da terra. Dopo qualche momento necessario a riprendersi, Natale afferrò la lampada, appoggiata sulla pietra che il drago aveva presidiato per tanto tempo, e l’accese. Immediatamente la luce annientò l’oscurità e il gruppo fece ritorno a Natalandia in sicurezza. 



«La portiamo sulla terra?» chiese Elborio. L’elfo beveva una tazza di cioccolata a casa di Natale e fissava incantato la lampada della Speranza appoggiata sul tavolo del salotto.

«No mio caro, vecchio amico» rispose Babbo Natale. «Sarebbe presto rubata di nuovo. La terra attraversa un momento difficile. Custodiremo noi la lampada della Speranza, qui, al sicuro nel nostro mondo magico. Quando sarà il momento verrano a prenderla i coraggiosi, i pionieri del nuovo mondo, i costruttori di quella terra fatta di Luce e Amore che è nel destino dell’umanità. E adesso su, coraggio, manca un giorno al giorno più bello dell’anno, e abbiamo ancora un sacco di cose da fare!»

«Giusto capo!» scattò sull’attenti il vecchio elfo, poi corse fuori diretto ai vari padiglioni per impartire le ultime direttive.


Era mattina e la mamma del bimbo entrava nella sua cameretta per dargli la sveglia e il buongiorno. «Hai fatto bei sogni stanotte caro?»

«Ho salvato il Natale mamma, e un giorno salverò la terra» rispose il piccolo.

La mamma sorrise; suo figlio aveva molta fantasia e inventava sempre tante storie. Lei non poteva sapere, era un’adulta e non ricordava più quanto fosse meravigliosa e potente la magia di un bambino.








SAPERE È POTERE

L'arma più potente del male è l'invisibilità. 

Da moltissimo tempo la credenza nelle forze oscure è stata messa al bando, ridicolizzata, negata, fino al punto delle più scellerate incongruenze, se nemmeno la chiesa e i suoi rappresentanti (quelli più in basso nella scala gerarchica) ci credono più. 

In questo modo il male può agire indisturbato e quasi alla luce del sole. Mostra sfacciatamente le sue azioni, i suoi emissari, persino le sue strategie senza che quasi ce ne accorgiamo, accecati da secoli di intorpidimento spirituale. 

Il divino è uscito dalle nostre vite, scientemente escluso, bandito da chi ha tutto l'interesse affinché il genere umano si trovi disarmato e privo di una luce che lo guidi nelle tenebre. 

Le fiabe, con il loro linguaggio archetipico, hanno da sempre insegnato l'esistenza delle forze oscure e dato ai bambini gli strumenti spirituali per la comprensione e la difesa. 

Oggi sono rimpiazzate da fumetti intrisi di erotismo, videogiochi cruenti e racconti dell'orrore. Leggere le fiabe - quelle vere - ai nostri piccoli, oggi più che mai è un atto di grande consapevolezza e amore.

                                  IL CORAGGIO DI PENSARE

Nuova fiaba di Grazia Catelli Siscar sul blog Anima.tv della casa editrice Anima Edizioni

                  

UN MONDO SENZA FIABE

                                            
Un giorno il mondo si svegliò senza fiabe. 

I sette nani non cantavano più «hei hooo, hei hooo…» e avevano abbandonato la miniera. Ora passavano le giornate a ubriacarsi, giocare a carte e dormire. Scomparsa la gioia dell’impegno e del lavoro, erano adesso un branco di vecchi indolenti alcolizzati. 

Mary Poppins non sopportava più i bambini, aveva smesso di fare la tata, e a furia di ingozzarsi con il cibo spazzatura davanti alla televisione, ormai era troppo grassa per volare appesa al suo ombrello nero. Scomparsa la gioia di educare attraverso la magia, sprecava il tempo guardando programmi cretini e televendite. 

Cenerentola, dopo aver tirato il paiolo del camino in testa alla matrigna, era fuggita con il primo viandante conosciuto per strada, e di lei non si seppe più nulla. Senza la fede né l’aiuto delle creature magiche e degli spiriti che abitano la natura, la sua occasione di incontrare il principe azzurro era svanita. Perduta per sempre, come anche la realizzazione di aspirazioni e desideri. 

La Bella Addormentata non si era addormentata; furente per l’anatema ricevuto nel giorno del suo battesimo, e prima che questo si compisse, apprese le arti magiche e piantò l’ago dell’arcolaio nel sedere della maga cattiva, rovesciando le sorti dell’incantesimo: fu la strega a cadere nel sonno eterno! Ora che il Male dormiva, il Bene non sapeva di esistere, perché una cosa non ha più significato senza il suo opposto. E il mondo finì nel caos. 

Anche Biancaneve riuscì a salvarsi dal maleficio del sonno eterno. Maniaca del pulito al limite dell’ossessione, non avrebbe mai potuto mangiare cibo inquinato dalle mani sporche di una mendicante! Fu per questioni d’igiene quindi che sostituì furtivamente con una mela sana quella della vecchia apparsa un giorno alla sua porta. Dunque, mentre lei addentava un frutto innocuo, la strega ingeriva quello velenoso. Oplà, un’altra cattivona vittima di se stessa. 

Tanta bruttezza non poteva essere esposta in una teca di cristallo, perciò la strega finì sotto terra, ed è improbabile che qualcuno prima o poi chieda una riesumazione per baciarla e spezzare l’incantesimo! 

Quando Biancaneve si rese conto di aver ammazzato una vecchietta ebbe paura di finire in prigione e fuggì. Visse in una città lontana, fu assunta come cameriera in un bar e continuò a vagheggiare un futuro da attrice; ma lei non cantava più al pozzo dei desideri e non diventò mai attrice perché non era quello ciò che realmente voleva il suo cuore. Il bacio del vero Amore non fu mai dato, e l’Amore si spense nell’indifferenza. 

Sì, l’alba di una fredda mattina invernale svegliò l’umanità in un pianeta senza fiabe. 
Però i terrestri dell’ultima generazione, gli ultimi nati, non volevano subire una tale ingiustizia; non volevano vivere in un mondo governato dal caos, senza sogni né desideri, senza amore né magia. 
Che fare dunque? 
La Befana, mentre accadevano tutte queste vicende, si trovava in un luogo lontanissimo, alla fine del mondo. Aveva fatto un lungo viaggio per raggiungere la vecchia sorella Anafeb e rifornirsi dello speciale carbone che solo lei sapeva preparare. 

Quando fu sulla via del ritorno in groppa alla leggendaria scopa, i bambini capirono di avere ancora una speranza: forse proprio la Befana, risparmiata dallo sterminio delle fiabe, avrebbe potuto salvare il mondo! Quindi si rivolsero alla Grande Vecchia, supplicandola di sistemare le cose. 

La Befana ci pensò su, appoggiata al manico della scopa, mentre i bambini erano accovacciati ai suoi piedi - ce n’era uno per ogni razza e paese come rappresentante del suo popolo - e la guardavano in trepidante attesa. 
«Ho trovato!» esclamò all’improvviso facendo sobbalzare il giovane pubblico. 
Senza dire altro inforcò la scopa e volò via. 

Quella stessa notte, a ogni camino, o cappa (o in mancanza di entrambe una mensola) di ogni casa del mondo, la Befana appese una calza rossa. La calza conteneva cinque semi: il seme della Speranza, il seme della Fiducia, il seme dei Desideri, poi quello della Magia e infine dell’Amore. 
C’era anche un biglietto con le istruzioni: «Scegli un buon terreno, concima con la Gioia e annaffia con la Fede. 

Quei semi infine generarono i loro frutti; riapparvero i desideri insieme alla fiducia, la speranza insieme alla forza, l'amore insieme alla magia.

E fu così che grazie all’ultima generazione di terrestri, il pianeta ebbe di nuovo le sue fiabe. 
La Befana fu celebrata come l’eroina dei due due mondi: colei che in groppa alla sua scopa attraversa il confine dal vecchio al nuovo. 
Forse è per questo motivo che qualcuno, di tanto in tanto, la vede tramutarsi da vecchia signora a splendida fanciulla…



GLI ARCHETIPI NELLE FIABE



Gli Archetipi contenuti e raccontati nelle fiabe aiutano a comprendere quelle parti di noi che vogliono essere riconosciute e guarite.

Quando la stessa ferita si ripete nella vita di una persona - e può farlo mostrando diverse facce -  nascono e crescono i lati Ombra dell’Archetipo.

Ricche di viaggi fantastici e magia, eroi e anti eroi, le favole ci permettono di identificare tali lati oscuri, dapprima a livello inconscio - perché questo è il loro contenitore ed è su questo piano che agiscono le fiabe - poi, forse, di guarirli attraverso la guarigione del simbolo. Le fiabe sono dunque preziose a qualunque età, dall’infanzia alla vecchiaia.

Nel libro: «I viaggi di Timoteo» uno degli Archetipi vissuti dal protagonista è quello dell’Orfano.

Se pensiamo alle esperienze che attivano gli aspetti ombra di questo simbolo, comprendiamo che le nostre vite ne sono piene: il bullismo subito da giovani a scuola (e attraverso i social media), gli amori traditi, le truffe economiche e affettive, e via dicendo.
Le ferite generano personaggi oscuri, quali il traditore di sé stesso, cioè colui che non mette a frutto i propri talenti per paura o sfiducia. O il falso cinico, o il vittimista capace di vampirizzare persone e ambiente. Sono solo pochi esempi dei mille volti con i quali si mostra appunto il lato Ombra dell’Orfano.

Morti i suoi genitori, Timoteo resta solo ed è costretto a trasferirsi in un orfanotrofio perché non ha parenti che possano accudirlo.
Qui potrà guarire il tradimento della vita, che gli ha tolto non solo mamma e papà ma anche la sua amata, specialissima casa.
Guarisce attraverso l’amore della tenera istruttrice Angela, la quale a sua volta guarisce se stessa e le sue perdite grazie all’affetto materno che prova per Tim.

Nella vicenda tuttavia, la più significativa espressione simbolica di questo Archetipo è Benvenuto, il piccolo orfano autistico.
Timoteo ingaggia un’epica seppur silenziosa battaglia per arrivare alla coscienza di Ben, e ottiene la vittoria solo grazie alla Fede e all’Amore.
Nel guarire l’altro, Tim non solo guarisce se stesso ma sperimenta la verità di una sua visione, quando gli fu rivelata (in un altro capitolo) la fitta trama che lega tra loro tutti gli esseri viventi. 

Timoteo è l’eroe che riconosce il simbolo e vince l’Archetipo, conquistando così la Libertà e la Conoscenza; e proprio qui, alla fine delle sue avventure, guadagna la rivelazione alla domanda che apriva la fiaba.